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Giovani Visioni
Progetti d'autore
Coordinatore di Sezione Lorenzo Levach
Giovani Visioni rappresenta uno spazio dinamico e innovativo, dove le nuove generazioni possono raccontare il loro punto di vista sul mondo, esplorando temi contemporanei che spaziano dall’identità, alla società, alle sfide globali e personali. Con una particolare attenzione ai linguaggi visivi contemporanei, la sezione si propone di essere una piattaforma che accoglie progetti originali, in grado di sfidare le convenzioni e di stimolare il pubblico ad una riflessione profonda su come i giovani vedono e vivono il loro tempo.
Brainrot di Kage Magazine
Alberto Barcaroli
Carmen Elena Zaharia
Maraya Luongo
Kage Magazine
Brainrot - Marciume celebrale
Email KAGE: kageproduzione@gmail.com
Quella che sembra una vera e propria piaga, in realtà non è altro che la definitiva consacrazione del potere isterico delle immagini sull’essere umano. Il fenomeno in sè è puramente un gesto, uno scrolling convulsivo, ma cosciente ed ordinato. Finito. Un deterioramento conclamato della nostra presa emotiva ed intellettuale sulla realtà visiva. Una deresponsabilizzazione dalle idee complesse incarnate da memes e simbolismi sull’orlo dell’assurdo, dell’illogico. Un termine che trova le sue radici addirittura nel XIX secolo, quando lo scrittore inglese Henry David Thoreau utilizzò per la prima volta questa termine nel raccontare la grande crisi morale dell’Inghilterra vittoriana nel libro Walden ovvero Vita nei boschi. Ovviamente oggi il Brainrot è un fenomeno maggiormente discusso, tangibile e rivoluzionario. Non a caso è stata eletta, attraverso un sondaggio al quale hanno preso parte 37.000 persone, come parola dell’anno dalla Oxford UniversitPress. Una parola che ha prolificato nelle nostre menti, nei nostri occhi, come un virus che ha assunto sempre più una sua chiara identità nella mutazione linguistica che inesorabilmente ha plasmato la nostra idea di autodeterminazione spettatoriale, di libero arbitrio e, in generale, di Democrazia, rendendoci dei novelli prigionieri Platoniani privi della fantasia e delle intenzioni. Dalle grandi questioni universali sino alle sciocchezze del quotidiano di cui ne sono un esempio illustre la cupa trasmissione a noi pervenute delle grandi guerre contemporanee, veicoli narrativi quasi degne della frammentarietà narrativa del Pynchon più isterico. O del Michael Bay più massimalista. Immagini che scorrono, scorrono e scorrono, come se stessimo aggrappati ad uno scoglio in mezzo ad una gigantesca cascata.
Eppure in qualcosa l’essere umano deve reagire. Non nel movimento, che pare una grottesca e perturbante dichiarazione di stasi, di potere dello sguardo meccanico, ancora in grado di catturare l’irrequietezza della natura umana. Eppure in questo scenario ucronistico, spesso dimentichiamo l’importanza che ha il nostro vero mezzo di comprensione della realtà, ovvero l’occhio. Senza scomodare i grandi pensatori dell’immagine, l’occhio ha assunto col tempo una sorta di paralisi concettuale. Un’entità quasi ectoplasmatica, dissezionata e bruciata dall’avvenire di idee e antidoti per prevenire la rottura dei nostri argini mnemonici. L’occhio siamo noi. La prova evidente della nostra esistenza. Della nostra vulnerabilità. Eppure non è una materia morta. É una macchina che lentamente si deteriora, portandoci a domandare se sia giunta l’ora di considerare anch’esso una coscienza da preservare. Con questo esperimento abbiamo voluto ragionare sul concetto di “proiezione”, cercando di portare lo spettatore a poter liberare, dimostrare, l’effetto martoriato del proprio veicolo di comprensione della realtà, o almeno di poterci porre il quesito della sua presunta esistenza realtà. L’utilizzo di materiali leggeri quali una webcam indottrinata nell’essere una facile videocamera di sicurezza e un Kinect che richiama un aspetto quasi militare nel suo primordiale utilizzo infantile, dato che non è un altro un sensore utilizzato per giocare insieme alla propria famiglia ai videogiochi, rende Brainrot un primo passo, un Frankenstein composto di immagini riesumate, per incominciare a ragionare su questa confortante e allucinata prigionia intrattenente.
Kage Magazine
E' una realtà audiovisiva nata dalle menti di Lorenzo Levach, Mattia Daniel e Giovanni Stramacci. Conosciutosi in una scuola cinematografica di Roma, i tre, dopo aver inizialmente lavorato alla realizzazione di quattro cortometraggi, di cui uno momentaneamente distribuito da Tersite Distribuzioni, hanno fondato il proprio credo sulla dissoluzione dell’immagine digitale e sul suo processo consumistico da fast food, arrivando a sintetizzare tutto ciò con la realizzazione di questo progetto. Attenti sulle evoluzioni del contemporaneo, KAGE MAGAZINE abbraccia le più disparate estetiche digitali, apportando anche nelle discipline pittoriche e performative l’idea di un’immagine, di una percezione, sempre più nevrotica e tagliente. Attualmente il gruppo risiede a Roma.
LORENZO LEVACH
NUMERO: 3883851944
EMAIL: lorenzolevach@gmail.com
MATTIA DANIEL
NUMERO: 3489501044
EMAIL: mattiadaniel.1996@libero.it
GIOVANNI STRAMACCI
NUMERO: 3458892482
EMAIL: nanni.lazio@hotmail.it
Alberto Barcaroli
Ossa in fiore
Ossa in Fiore esplora il rapporto tra isolamento, solitudine e la crescita incontrollata di un’idea. Attraverso una serie di scatti post-prodotti con fotografia, intelligenza artificiale e interventi digitali, il progetto rappresenta un individuo da cui emergono escrescenze ossee nere, inizialmente sottili e definite, ma che con il tempo diventano sempre più invasive e ingestibili. Queste formazioni simboleggiano il processo mentale che trasforma un pensiero in un’entità autonoma: un’idea che nasce come stimolo creativo e catartico, ma che crescendo può diventare soffocante, logorante, f ino a sostituire l’individuo stesso. L’ispirazione visiva prende spunto dal Papilloma virus di Shope, che provoca escrescenze cheratinose nei conigli, e dai Presagi di Elden Ring, figure maledette dalla loro stessa natura. La serie segue un’evoluzione graduale: con il progredire delle immagini, le escrescenze si moltiplicano, l’atmosfera si fa più cupa, il soggetto viene progressivamente oscurato dalla sua stessa creazione. Il contrasto tra corpo umano e crescita ossea vuole suggerire un conflitto interiore tra identità e pensiero, tra controllo e perdita di sé. Con questa ricerca visiva, Ossa in Fiore indaga il sottile confine tra illuminazione e ossessione, tra idea e maledizione, trasformando la fotografia in una rappresentazione metaforica della mente che germoglia e si espande senza limiti.

Biografia
Sono un artista visivo con un background che spazia tra audiovisivo, fotografia, grafica e illustrazione. Lavoro con mixed media, scegliendo di volta in volta la tecnica più adatta per rappresentare ciò che voglio esprimere. Il mio stile si muove spesso all’interno di un immaginario cupo, nostalgico e minimalista, dove la composizione e la resa dell’immagine sono gli elementi principali del racconto, senza il bisogno di troppe parole. Mi interessa esplorare il confine tra suggestione e sottrazione, lasciando spazio all’interpretazione dello spettatore. Ho seguito un percorso di studi artistico sin dalle superiori, fino all’università di cinema, sviluppando un linguaggio visivo che attinge tanto dalla narrazione cinematografica quanto dalla fotografia e dalla grafica, in un dialogo costante tra queste forme d’arte
Carmen Elena Zaharia
Identità
Questo progetto nasce in un momento di profonda oscurità, un periodo in cui le parole non bastavano per esprimere ciò che sentivo. Attraverso la fotografia in bianco e nero, con lunghe esposizioni che sfumano i contorni e dissolvono i confini, ho dato forma al malessere che mi abitava. Come diceva Kafka, "si fotografano le cose per cacciarle via dalla mente", e così ho fatto, cercando di trasformare il dolore in immagini, il silenzio in movimento, la fragilità in arte. Il progetto tratta della perdita di sé stessi nella malattia, nello specifico dell'anoressia nervosa, un disturbo che mi ha divorato l’identità. Svanire piano piano nel disturbo, confondersi con esso e non riconoscere più la propria forma. Il dolore e le conseguenze non sono leggere come il peso che comporta sulla bilancia. La visione del mio corpo e della mia persona era alterata, sfocata, così come la percezione nei confronti del cibo. Ricordo l’eccessiva restrizione dietetica, la sensazione di vuoto nello stomaco diventata costante, i capogiri, l’ossessione per le calorie. Ricordo la perdita dei capelli, dell’energia, la fatica immensa anche nelle più piccole azioni. Ricordo la sensazione di sentire il mio corpo morire, intrappolato in un gioco crudele dove chi mangia perde tutto. Le modelle sono ragazze che ho conosciuto durante il mio ricovero in comunità. Con coraggio e sensibilità, si sono offerte di essere parte di questa narrazione visiva, prestando i loro corpi e le loro emozioni a una storia che è personale ma anche universale. Ogni fotografia è il riflesso di uno stato d’animo, di un’ombra interiore, di una lotta invisibile ma tangibile. Usare la fotografia è stato per me un modo per affrontare quello che stavo attraversando, per cercare di ritrovare la luce. Scattare è stato un tentativo di elaborare, di non soccombere, di dare un senso a ciò che sembrava inghiottirmi. Ma penso anche che, trattandosi di arte, ognuno sia libero di vedere quello che vuole nelle mie foto. Spero, anche se può sembrare strano, che il vero significato non venga colto del tutto, che gli spettatori possano dare alle immagini un significato diverso, personale, distante dalla mia esperienza ma vicino alla loro sensibilità. In questa battaglia con il corpo, trovare conforto nella malattia porta al dileguarsi in essa. Questo progetto non è solo un racconto del dolore, ma anche della perdita, della distorsione e della fragilità di un’identità che si sgretola. Ma è anche, in qualche modo, un tentativo di risalire, di lasciare che la luce filtri tra le crepe.
Biografia
Mi chiamo Carmen Zaharia, e la fotografia è stata la mia compagna silenziosa da quando ero piccola, quando la videocamera dei miei genitori ha catturato i miei primi scatti. Da quel momento, la passione per le immagini è diventata la mia ricerca, una ricerca che continua attraverso libri e sperimentazioni, fino a dar vita a un linguaggio che è solo mio. Nel bianco e nero trovo la mia voce, nell’oscurità delle lunghe esposizioni, l’occasione di esplorare l’invisibile. Le mie immagini sono frammenti di storie e stati d’animo, dove il confine tra realtà e percezione si dissolve, creando uno spazio dove l’intimità e l’emozione diventano protagoniste. Oltre alla fotografia, mi immergo nel mondo dei video sperimentali, un mio lavoro è stato esposto a Arles e a Roma, dove l’arte diventa un linguaggio che attraversa e trasforma il presente. Tutto ciò che mi circonda è fonte di ispirazione, ma sono i momenti più bui della vita a plasmare il mio sguardo. Nelle ombre trovo la luce, e nei miei scatti cerco sempre un riflesso di quella luce che, anche nel dolore, sa emergere.
Maraya Luongo
9 e 1
Il nome “9e1“ prende ispirazione dal famoso progetto fotografico dell’artista canadese Jon Rafman “Nine Eyes of Google Street View“ e dalle nove fotocamere posizionate sopra le auto incaricate di fotografare l’ambiente circostante. Con questo progetto ho voluto rappresentare, attraverso la tecnica del collage digitale, il forte senso di non appartenenza e alienazione che provo a livello sociale. Utilizzando immagini satellitari e screenshot acquisiti tramite Google Street View creo nuove visioni della realtà: l’uomo interagisce con un mondo a cui non sembra appartenere, familiare ma al tempo stesso sconosciuto. L’osservatore viene posto davanti a composizioni in cui si intrecciano elementi naturali ed antropici catturati da uno sguardo apparentemente neutro, una macchina esteticamente poco esigente e priva di interazione umana. Allo stesso tempo la condizione dell’essere umano è documentata senza filtri. I volti delle persone sono sempre assenti o non riconoscibili, un dettaglio che amplifica il senso di estraneità e rende le figure umane presenze senza identità, capaci di rappresentare chiunque e nessuno allo stesso tempo. Il progetto, in breve, trasforma elementi di realtà in nuove narrazioni visive e comunica un senso di inadeguatezza generale.
Biografia
Mi chiamo Maraya Luongo, ho 24 anni e attualmente vivo a Terni, in Umbria. Da sempre sento il bisogno di esprimermi tramite l’arte: il mio percorso di studi ha rafforzato questa necessità portandomi ad esplorare più a fondo vari campi artistici come il cinema, la fotografia, la Net art, e i Mixed Media.
In quello che produco oggi unisco tecniche tradizionali e nuovi linguaggi multimediali per creare composizioni che mettono in dialogo il mondo naturale e quello digitale e investigano il rapporto tra l’osservatore e la realtà mediata dalle macchine.
Nata negli anni 2000 ho trovato nella tecnologia, e più nello specifico in internet, un elemento centrale del mio linguaggio creativo
©2022 - Fag - Design by Monica Bisin